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Un errore giudiziario clamoroso: il caso Tortora

Hotel Plaza, 17 giugno 1983, quattro e trenta del mattino. Enzo Tortora esce dall’albergo dove risiede, scortato dai carabinieri. Non riesce a capire quello che sta accadendo e nemmeno a crederci. Il suo arresto segna l’inizio di un incubo fatto di battaglie e ingiustizie, un calvario che terminerà solo con la sua morte nel 1998, segnando profondamente la storia della giustizia italiana.

Presentatore televisivo estremamente popolare e uno dei padri fondatori della televisione in Italia, Tortora è conosciuto dal grande pubblico per il suo ruolo da conduttore di programmi come La Domenica Sportiva e Portobello. Me è purtroppo altrettanto conosciuto per la drammatica inchiesta giudiziaria che lo ha coinvolto, uno dei più clamorosi casi di errori giudiziari dell’Italia contemporanea.


L'ARRESTO


All’arresto, Tortora è ritenuto colpevole di traffico di stupefacenti e di associazione mafiosa: secondo l’accusa avrebbe collaborato con la Nuova Camorra Organizzata, a cui capo c’era il boss Raffaele Cutolo. Non ci sono prove che inchiodino Tortora. La limitazione della sua libertà è totalmente incentrata su elementi inconsistenti: le parole di falsi pentiti. A queste non corrispondono riscontri oggettivi.

Dal 1999 il codice di procedura penale vieta la pubblicazione di immagini di privati ammanettati o tenuti sotto coercizione fisica, a meno che non ci sia il loro esplicito consenso. Nel 1983, però, fuori dalla caserma di via in Selci a Roma c’è una piccola folla di giornalisti, tutti accorsi per accaparrarsi la giusta fotografia da piazzare in prima pagina di giornali e servizi televisivi. Molti di loro erano stati avvertiti con fin troppo preavviso dell’arresto del conduttore televisivo, e il giorno prima lo stesso Tortora aveva ricevuto una telefonata da un amico del quotidiano il Giorno, che lo avvertiva della circolazione di voci su un suo presunto arresto.


Come in tutti i casi di cronaca nera e di cronaca giudiziaria, gli italiani fanno presto a dividersi tra colpevolisti e innocentisti, ancora prima di sentire le ragioni delle parti coinvolte. Figuriamoci se questo non succede quando al centro delle speculazioni si trova uno dei volti centrali nella quotidianità del Paese. La polarizzazione era a livelli stratosferici. Partono fin da subito dicerie, teorie e idee disparate sui motivi e sulle ragioni dell’arresto del conduttore, andando a complicare mediaticamente il quadro già confuso delle notizie circolanti, e alterando il quadro già spettacolarizzato del processo.


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LE ACCUSE


A fare il nome di Tortora sono due pentiti: Giovanni Pandico, “il pazzo” e Pasquale Barra, “l’animale”, uno affetto da disturbi mentali (tra cui una diagnosticata “mania di protagonismo”) e l’altro un vecchio spietato killer della NCO. Entrambi, pur di ottenere sconti di pena, inseriscono senza alcuna logica Tortora nella rete di narcotraffico camorrista. Poco importa se le loro dichiarazioni sono piene di incongruenze: la magistratura le prende per buone e giustifica così l’arresto del presentatore, che non era mai stato associato agli ambienti criminali prima di allora.

Alle fantasiose storie di Pandico e Barra si aggiungono quelle di testimoni più o meno estranei al mondo criminale e camorrista. Molti tra questi presto ritraggono le loro accuse. Inizia il processo e il caso si fa caotico.


Nel 1985 Tortora viene condannato a dieci anni di reclusione. La sua figura subisce definitivamente la rovina pubblica. Oltre alle dichiarazioni dei pentiti, le prove a suo carico furono poche e poco sostanziose: è ricordato da molti un taccuino su cui appariva il nome Tortona, confuso dagli inquirenti per Tortora, e che apparentemente lo avrebbe connesso ai clan camorristi. Se le prove erano poche e inconsistenti, perchè è condannato? Il contesto è quello dell’Italia degli anni Ottanta, fatto di terrorismo e violenza mafiosa e quindi profondamente instabile. Per questo i magistrati erano portati a credere ciecamente alle dichiarazioni dei pentiti e ad utilizzarle come strumento investigativo. Nonostante dunque la penuria di riscontri concreti, nel caso Tortora le dichiarazioni di Pandico e Barra bastarono. 

Nel 1986 la Corte di Appello di Napoli smonta l’impianto accusatorio, riconoscendo l’assoluta estraneità dai fatti di Tortora. Nel 1988 la Corte di Cassazione conferma l’assoluzione definitiva del conduttore. Ma le conseguenze della gogna mediatica non furono risolvibili: la reputazione di Tortora era oramai distrutta, tanto quanto la sua salute fisica. A un paio di mesi dall’assoluzione il celebre e sfortunato presentatore muore di cancro, senza mai ricevere reale giustizia per il torto subito. 


Il caso Tortora sarebbe dovuto servire da monito per i processi che lo hanno seguito e che sono stati ipermediatizzati, ma così non sembra essere. Quello che sicuramente ha permesso è stato l’ampliamento di un discorso pubblico sul rapporto tra magistratura e opinione pubblica e un altro sul ruolo dei pentiti. “Io sono innocente”, queste le parole di Tortora in uno dei suoi ultimi interventi pubblici, appello ancora fin troppo attuale ed evocativo di un quadro giudiziario critico che coinvolge l’Italia, pur quarant’anni dopo.

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