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Responsabilità dei magistrati: oltre la riforma, una questione di coscienza civile


Un principio di civiltà giuridica


La Giustizia

In ogni ordinamento democratico, la giustizia costituisce il fondamento del patto sociale. L’articolo 101 della Costituzione stabilisce che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”, ma non esplicita ciò che dovrebbe essere implicito in uno Stato maturo: chi esercita il potere di giudicare deve anche rispondere del proprio operato.

La responsabilità del magistrato non è antitetica all’indipendenza, bensì la sua più alta forma di garanzia nei confronti del cittadino e della funzione giudiziaria stessa.

L’Italia, tuttavia, conosce solo una responsabilità indiretta, disciplinata dalla Legge 13 aprile 1988, n. 117 (cosiddetta Legge Vassalli), modificata nel 2015. In caso di errore giudiziario, il cittadino può agire soltanto contro lo Stato, che può rivalersi sul magistrato solo nei casi di dolo o negligenza inescusabile.

I dati forniti del Ministero della Giustizia e richiamati in una nota del deputato Enrico Costa mostrano che, dal 2010 al 2024, sono state avviate 815 cause di responsabilità civile nei confronti dello Stato per errori giudiziari: di queste, 311 si sono concluse con sentenza definitiva e solo 12 con condanna dello Stato, pari a circa l’1,4% del totale. Una percentuale che evidenzia in modo eloquente la sostanziale inefficacia del sistema di responsabilità previsto dalla Legge n. 117 del 1988¹.

Il dato non va letto come una statistica accusatoria, ma come il segnale di un sistema che, pur dichiarando di garantire la responsabilità, la rende di fatto quasi impraticabile. In un ordinamento fondato sulla separazione dei poteri, nessuna funzione può dirsi pienamente indipendente se non è anche responsabile.


Una riforma di struttura, non ancora di sostanza


La riforma costituzionale in corso di approvazione — comunemente definita Riforma Nordio — introduce la separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante, la creazione di due Consigli Superiori della Magistratura e l’istituzione di un’Alta Corte disciplinare².

Si tratta di un intervento di rilievo, volto a rafforzare ancora più il principio di terzietà e chiarezza di ruoli. Tuttavia, incide prevalentemente sull’assetto organizzativo, senza affrontare compiutamente il nodo sostanziale de tema della responsabilità individuale del magistrato.

La separazione delle carriere può ridurre commistioni e rafforzare l’equilibrio istituzionale, ma non basta, da sola, a garantire una giurisdizione più equa e consapevole. Un sistema giudiziario efficiente non si misura solo per il corretto equilibrio tra poteri, ma per la qualità, trasparenza e verificabilità delle decisioni.

L’indipendenza non può certamente coincidere con l’assenza di controllo, ma con la consapevolezza del dovere di rendere conto. Per questo, la riforma — pur coerente con il disegno costituzionale — appare incompleta se non accompagnata da una revisione del regime di responsabilità dei magistrati, capace anche di dare piena attuazione al principio contenuto nell’articolo 28 della Costituzione.

 

La responsabilità nella Costituzione e la deviazione legislativa


L’articolo 28 della Costituzione stabilisce che “i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti”. Si tratta di una disposizione di grande chiarezza, che non prevede eccezioni di categoria.

Tuttavia, la Legge Vassalli del 1988, successivamente modificata nel 2015, ha introdotto un modello di responsabilità mediata trasferendo la legittimazione ad agire: il cittadino non può agire direttamente verso il magistrato (se non nei casi di illecito penale compiuto dallo stesso nell’esercizio della sua funzione), ma nei confronti lo Stato, che può rivalersi in casi limitati di dolo o negligenza inescusabile³.

La successiva possibilità di rivalsa nei confronti del magistrato – limitata nei casi sopra menzionati – è rimasta nella prassi quasi mai esercitata. Questa impostazione, nata per tutelare l’autonomia della funzione giudiziaria, ha finito per creare una zona d’immunità.

La responsabilità personale non contrasta con l’indipendenza, ma ne è il complemento naturale: un giudice realmente indipendente è colui che risponde con trasparenza del proprio operato, che non teme verifiche perché ne riconosce il valore come presidio di trasparenza. Finché il principio dell’art. 28 resterà inattuato, la giustizia italiana continuerà a oscillare tra autonomia formale e assenza di effettiva rendicontabilità.

 

Tortora, Garlasco e l’errore giudiziario come crisi della giurisdizione


Enzo Tortora

L’errore giudiziario rappresenta una delle più gravi distorsioni della giurisdizione. Ogni volta che la verità processuale diverge da quella dei fatti, si indebolisce la fiducia collettiva nella giustizia come istituzione di garanzia. Il caso Enzo Tortora, arrestato nel 1983 e assolto nel 1987, ha rivelato quanto possa essere fragile il sistema quando vengono meno i meccanismi di verifica e di autocorrezione. Analogo rilievo assume il caso Garlasco, segnato da anni di processi e perizie contrastanti, che ha mostrato le difficoltà della giustizia contemporanea nel gestire la prova scientifica e nel mantenere equilibrio tra rigore probatorio e pressione mediatica⁵. Non si tratta di un errore individuale, ma inizia a diventare sistemico: nasce quando l’autonomia del giudice non incontra un corrispondente principio di responsabilità.

Un ordinamento che non riconosce i propri limiti perde la capacità di evolversi. La mancanza di strumenti di responsabilità diretta genera una forma di autoreferenzialità che indebolisce la funzione etica e sociale della giustizia.

 

L’errore civile: il volto silenzioso dell’ingiustizia


Se il processo penale concentra su di sé l’attenzione dell’opinione pubblica, il processo civile costituisce l’ambito nel quale l’errore giudiziario si manifesta con minore evidenza esterna, ma con effetti altrettanto significativi sul piano giuridico, economico e sociale. Una decisione errata in materia di proprietà, obbligazioni, lavoro o famiglia può produrre effetti difficilmente reversibili. Può privare una persona del proprio bene, determinare il fallimento di chi ha costruito con sacrificio, compromettere il diritto al lavoro o incidere su relazioni familiari fondamentali.

Il magistrato, per l’altissima funzione che esercita, ha il potere di incidere in modo profondo sulla vita delle persone, fino a determinarne la libertà, la dignità o la stabilità economica.

Nel processo civile, l’errore può derivare da molteplici fattori: da un’istruttoria, in alcuni casi, assunta in modo incompleto, da una valutazione non approfondita degli elementi probatori o, talvolta, da un uso eccessivamente discrezionale dell’interpretazione normativa. Si tratta di evenienze che, pur non sempre riconducibili a colpa grave, incidono comunque sull’affidabilità della decisione e sulla percezione di giustizia sostanziale da parte delle parti coinvolte.

Eppure, il cittadino che ne subisce le conseguenze resta privo di un rimedio effettivo, perché l’attuale sistema non prevede una responsabilità diretta del giudice.

La Riforma Nordio, pur intervenendo sull’assetto costituzionale della magistratura, non affronta questa dimensione sostanziale. Una giustizia civile lenta e priva di responsabilità personale non è solo una questione tecnica: mina la fiducia dei cittadini e rallenta la crescita economica.

Ogni errore non corretto rappresenta una lesione del principio di legalità sostanziale, che dovrebbe garantire certezza e tutela effettiva dei diritti.

 

La magistratura come vocazione e dovere morale


Non si tratta soltanto di un tema giuridico, o più ampiamente etico, ma di una questione di consapevolezza istituzionale. L’esercizio della funzione giudiziaria non può essere ridotto ad una professione meramente tecnica, ma rappresenta una vocazione pubblica, in cui tecnica, responsabilità e senso del limite devono coesistere come elementi essenziali dell’agire giurisdizionale.

Aula di Tribunale

Il magistrato non esercita un potere personale, ma un mandato nel quale è chiamato a garantire equilibrio tra legge, coscienza e giustizia sostanziale.

«L’onore dei giudici consiste nel riparare i propri errori»: così recitava la Relazione sull’amministrazione della giustizia per l’anno 2021⁶, richiamando una citazione di Voltaire che mantiene intatta la sua attualità.

Tale richiamo trova una naturale continuità nelle parole dell’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, il quale ricordava che la magistratura non è un potere, ma un ordinamento. Se nel tempo questo ordinamento è stato percepito, anche impropriamente, come un potere autonomo, ciò riflette innanzitutto un indebolimento del potere politico e della sua capacità di equilibrio istituzionale.

Riconsiderare questa dinamica non significa mettere in discussione l’indipendenza della magistratura, ma restituire coerenza al progetto costituzionale originario, in cui l’equilibrio tra funzioni è garanzia di libertà.

La riforma costituzionale potrà ridisegnare le forme, ma non potrà sostituire la dimensione etica della giurisdizione. Solo una magistratura che riconosce l’errore come parte del proprio dovere e accetta la responsabilità come strumento di trasparenza potrà restituire piena fiducia ai cittadini.

La vera riforma della giustizia non è nei codici, ma nelle coscienze: quella che trasforma l’indipendenza in servizio e il potere in responsabilità.

Ma, nel frattempo, la storia ammonisce: “nelle mani sbagliate, altolà, Tortora” — e Garlasco ricorda.

 

¹ Il Giornale, “Magistrati intoccabili: solo 12 condanne in 14 anni”

² Sistema Penale, “Separazione delle carriere in pillole”

³ Legge 13 aprile 1988, n. 117 (Legge Vassalli)

⁴ Ministero della Giustizia, Relazione sull’attuazione della Legge n. 117/1988

⁶ Corte di Cassazione, Relazione sull’amministrazione della giustizia 2021 - https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Cassazione_Relazione_2022.pdf

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