L’Italia che invecchia: come il calo demografico minaccia la tenuta del sistema
- Riccardo Quarta
- 25 ott
- Tempo di lettura: 9 min
La crisi demografica italiana è ormai una voragine che inghiotte il futuro del Paese, con 369.944 nascite registrate nel 2024, un calo del 2,6% in appena un anno; quasi diecimila culle vuote in più, in un trend che, secondo le proiezioni provvisorie per il 2025 (gennaio-luglio), potrebbe addirittura peggiorare con un deficit di circa 13mila nuovi nati rispetto allo stesso periodo precedente. Una spirale negativa, dunque, che non solo non accenna a rallentare, ma anzi accelera, ponendo drammatici interrogativi sulla sostenibilità economica e sociale della Nazione. L'allarme è unanime e trasversale, da chi vede nell'attuale esecutivo una "totale assenza di politiche per la famiglia" a chi parla di una condizione che "mette a rischio la sostenibilità sociale ed economica della nostra nazione". L'età media al primo parto continua inesorabilmente a salire, raggiungendo i 32,6 anni, un dato che, unito a precarietà lavorativa e difficoltà abitative, riduce l'arco di tempo per i progetti familiari e fa crollare l'indice di fecondità.
L’emorragia delle nascite non si arresta
Il bilancio demografico del 2024 per l'Italia non lascia spazio a interpretazioni ottimistiche. Il Paese si è fermato a 369.944 nascite, un dato che segna una riduzione del 2,6% in confronto all'anno precedente, con quasi diecimila neonati in meno; si tratta di un calo che, in base ai dati provvisori del periodo gennaio-luglio, potrebbe preannunciare un 2025 ancora più critico, con una contrazione di circa 13mila nascite nello stesso arco temporale. La crisi, pur se generalizzata, manifesta picchi di intensità differenti a livello regionale, delineando una vera e propria frattura: le regioni che hanno registrato la flessione più consistente sono state l'Abruzzo e la Sardegna, entrambe con una perdita di oltre il 10% (-10,2% e -10,1% rispettivamente), a testimonianza di come i fenomeni di spopolamento e invecchiamento si stiano abbattendo con particolare virulenza su alcune aree del Paese. Sul fronte opposto, invece, resistono, o addirittura crescono lievemente, la Valle d’Aosta (+5,5%) e le Province Autonome di Bolzano (+1,9%) e di Trento (+0,6%), sebbene queste eccezioni non siano in grado di invertire la tendenza nazionale. Al di là dei numeri nudi e crudi sulla quantità, l'aspetto qualitativo del fenomeno evidenzia un progressivo e ineluttabile innalzamento dell'età in cui le donne italiane scelgono di diventare madri. Le ripercussioni di questo prolungato "inverno demografico" si fanno sentire sull'intera struttura sociale ed economica: la mancanza di giovani in grado di entrare nel mercato del lavoro e versare i contributi necessari a sostenere il sistema pensionistico rende inevitabile il progressivo allontanamento dell'uscita dal lavoro. L'Istat, in armonia con le stime della Ragioneria Generale dello Stato, prevede che il requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia toccherà i 68 anni e 11 mesi nel 2050 (rispetto agli attuali 67) e raggiungerà i 70 anni nel 2067, una prospettiva che prefigura un futuro di lavoro sempre più prolungato per i cittadini.
Politica in ritardo e il rischio di insostenibilità economica e sociale
Il quadro drammatico disegnato dai dati sulla natalità ha sollevato forti reazioni e critiche nei confronti dell'azione governativa, accusata di inerzia di fronte a una crisi che minaccia le fondamenta del Paese. La senatrice Raffaella Paita, capogruppo al Senato di Italia Viva, ha definito la situazione come «drammatica» e ha puntualizzato: «Dopo tre anni di governo è la dimostrazione più evidente della totale assenza di politiche per la famiglia»]. Sulla stessa lunghezza d'onda si è espresso Marco Furfaro, responsabile Contrasto alle diseguaglianze e Welfare nella segreteria nazionale del Pd e capogruppo in Commissione Affari Sociali, il quale ha rimarcato la discrasia tra le dichiarazioni e le azioni concrete dell'Esecutivo: «il governo Meloni si riempie la bocca di parole come ‘famiglia’ e ‘natalità’, ma poi non fa assolutamente nulla per chi vorrebbe crearne una». La preoccupazione, tuttavia, non è circoscritta all'ambito politico, ma si estende a quello sociale ed economico. Gigi De Palo, presidente della Fondazione per la Natalità, ha espresso un allarme che travalica il mero dato statistico, proiettandosi sulla tenuta del sistema-Paese: il trend attuale, ha ammonito, «mette a rischio la sostenibilità sociale ed economica della nostra nazione». Il calo demografico non è, infatti, solo una questione di meno nascite, ma un meccanismo complesso che, attraverso il progressivo invecchiamento della popolazione, rischia di compromettere la capacità produttiva, il sistema di welfare e la sostenibilità della spesa pubblica, in particolare quella pensionistica. La reazione politica, al momento, sembra insufficiente a fronteggiare l'urgenza di un'inversione di rotta che richiederebbe interventi strutturali e lungimiranti, ben oltre la retorica della promozione della famiglia.
Fecondità al minimo storico e madri sempre più avanti con l’età
L'indicatore più eloquente della crisi è il numero medio di figli per donna, sceso a 1,18 nel 2024. Questo valore, in ulteriore contrazione rispetto all'1,20 dell'anno precedente, non solo si posiziona ben al di sotto del picco del nuovo millennio (1,44 toccato nel 2010), ma fa segnare una discesa sotto il minimo storico registrato nel 1995 (1,19), evidenziando una rottura della soglia negativa che non accenna a invertirsi. Il calo della fecondità coinvolge indistintamente sia le donne italiane che quelle straniere, benché con un impatto numerico differente: il numero medio di figli per le straniere si attesta a 1,79 nel 2024, un valore ancora superiore rispetto all'1,11 delle donne italiane, ma anch'esso in diminuzione rispetto all'1,82 del 2023 e, in modo molto più marcato, rispetto al 2,31 del 2010. Questo indica un progressivo adeguamento dei comportamenti riproduttivi delle donne straniere residenti in Italia a quelli delle autoctone, contribuendo in parte alla diminuzione complessiva. Parallelamente, si osserva un inesorabile aumento dell'età media al parto, che ha raggiunto i 32,6 anni, segnando un incremento di quasi tre anni rispetto al 1995. Se si analizza il dato relativo al primo figlio, l'età si avvicina a 32 anni. Tale scelta di posticipare la genitorialità è strettamente connessa a fattori socio-economici, come l'allungamento dei percorsi formativi, le crescenti condizioni di precarietà del lavoro giovanile e le difficoltà strutturali di accedere a un mercato immobiliare che consenta l'indipendenza abitativa. Il posticipo delle decisioni di genitorialità riduce, di fatto, l'arco temporale fertile a disposizione, contribuendo in maniera diretta alla riduzione generale del tasso di fecondità e alimentando il circolo vizioso demografico.
L’anziano al lavoro: aumento della partecipazione al mercato del lavoro Over 65
L'invecchiamento della popolazione e il crollo della natalità producono un effetto collaterale diretto e significativo sul mercato del lavoro e sulla platea occupazionale: l'inevitabile incremento della partecipazione al lavoro tra le fasce di età più avanzate. Le stime dell'Istat, nel focus dedicato alle proiezioni sulla forza lavoro, prevedono che entro il 2050 il tasso di attività per la fascia di età 65-74 anni si innalzerà drasticamente, passando dall'11% del 2024 al 16%. In termini assoluti, la quota di anziani di 65 anni e oltre sulla popolazione totale è destinata a crescere in modo esponenziale, passando da meno di un quarto degli individui (24,3%) nel 2024 a più di uno su tre (34,6%) nel 2050. Di converso, la quota di persone in età lavorativa (15-64 anni) subirà una contrazione, scendendo dal 63,5% del 2024 al 54,3%. Questa trasformazione è favorita anche dall'aumento della speranza di vita alla nascita, un dato che l'istituto di statistica prevede in aumento per entrambi i sessi: nel 2050 raggiungerà gli 84,3 anni per i maschi (dagli attuali 81,7) e gli 87,8 anni per le femmine (dagli 85,6 del 2024). L'allungamento della vita è generalmente accompagnato da un miglioramento complessivo delle condizioni di salute, rendendo non solo possibile, ma sempre più necessario dal punto di vista economico-sociale, il prolungamento dell'attività lavorativa oltre le attuali soglie. Le analisi dell'Inapp evidenziano la gravità della carenza futura di personale, stimando che nei prossimi dieci anni mancheranno all'appello oltre 6 milioni di lavoratori, una voragine che i giovani non saranno in grado di colmare, con la popolazione in età da lavoro (20-64 anni) che si ridurrà del 34% entro il 2060, impattando su crescita, welfare e sostenibilità della spesa pubblica.

Le conseguenze del calo demografico: il crollo del matrimonio e l’aumento del doppio cognome
Il quadro demografico non è solo una questione di quantità di nascite, ma anche di profonda mutazione dei modelli familiari e sociali. Sebbene in contrazione, i nati da coppie non coniugate hanno retto meglio la crisi demografica rispetto ai nati all'interno del vincolo matrimoniale. I figli nati fuori dal matrimonio sono stati 159.671 nel 2024, con una flessione contenuta dello 0,8% sul 2023, mentre quelli nati da coppie coniugate (210.273) hanno registrato un calo molto più netto, pari al 4%. Nonostante la riduzione in termini assoluti, l’incidenza dei nati da coppie non coniugate è in continua crescita, attestandosi al 43,2% nel 2024, un aumento dello 0,8% rispetto al 2023 e un balzo del 23,5% rispetto al 2008. In dettaglio, a crescere è soprattutto la quota di nati da genitori che non sono mai stati sposati (dal 35,9% al 36,9%), a fronte di una lieve flessione per le nascite da coppie in cui almeno un genitore ha avuto una precedente esperienza matrimoniale (dal 6,5% al 6,2%). Questa tendenza è particolarmente marcata nel Centro Italia, che raggiunge quasi la metà (49,6%) delle nascite fuori dal matrimonio, seguito dal Nord (42,8%), mentre il Sud (40,3%), pur con il dato più basso, mostra la crescita maggiore (+1,8%). È evidente che il matrimonio viene sempre meno percepito come una condizione imprescindibile per la genitorialità; tra le madri più giovani, fino a 24 anni, la quota di nascite da genitori mai coniugati rappresenta ben il 57,3% del totale, un dato che diminuisce all'aumentare dell'età della madre. Inoltre, i dati mostrano una crescente adesione alla novità legislativa sul doppio cognome (paterno e materno), che nel 2024 ha riguardato il 6,7% dei nati, in aumento di 4,3 punti percentuali rispetto al 2020. Questo fenomeno, più diffuso nel Centro-Nord (dove si registrano percentuali oltre l'8%), è un ulteriore segno della trasformazione delle dinamiche familiari e dei diritti di filiazione.
L’urgenza del Age Management e l’attivazione delle donne e dei Neet
Di fronte all'inesorabile declino demografico e al progressivo invecchiamento della popolazione attiva, l'Italia si trova a un bivio cruciale che richiede un cambio di passo immediato e un approccio coordinato di politiche che superino gli interventi frammentari. L'istituto di ricerca Inapp sottolinea l'assenza di un sistema coerente di “age management”, ovvero di strategie e politiche volte a valorizzare le competenze e l'esperienza delle generazioni mature, parallelamente al sostegno dell'ingresso di giovani e donne nel mercato del lavoro. Il presidente dell'Inapp, Natale Forlani, ha rimarcato l'assoluta necessità di una "doppia strategia": da un lato, politiche previdenziali che tutelino il pilastro pensionistico, restringendo gli schemi di ritiro anticipato e innalzando progressivamente l'età pensionabile, e dall'altro, politiche attive mirate a "rigenerare la forza lavoro" attivando gli inattivi. La platea su cui intervenire è ampia: 7,8 milioni di donne tra i 15 e i 64 anni sono oggi fuori dal mercato del lavoro, di cui oltre 1,2 milioni si dichiarano disponibili a lavorare, con picchi di inattività disponibile nel Sud (oltre il 23% in Campania e Sicilia). L'80% delle inattive nelle fasce centrali d'età cita i motivi di cura familiare come principale fattore di scoraggiamento, evidenziando la crucialità del tema del "caring". Sorprendentemente, circa la metà delle inattive accetterebbe un impiego anche per salari inferiori ai 1.000 euro netti mensili. Inoltre, è fondamentale intervenire sui cosiddetti Neet (circa 1,4 milioni di adulti che non studiano, non lavorano e non cercano un’occupazione). Forlani ha poi evidenziato l'importanza strategica della tecnologia per l'aumento della produttività e dell'investimento nella cura: «Assolutamente strategico è poi il ruolo della tecnologia per l’aumento della produttività e l’investimento nel caring. Il tema della cura, ampiamente inteso, rappresenta uno snodo cruciale per rispondere a fabbisogni crescenti indotti dalla transizione demografica, ma anche per generare nuove opportunità di sviluppo economico ed occupazionale. È su questi aspetti che bisogna intervenire per avere un deciso cambiamento di rotta del nostro inverno demografico»[^4].
La sostenibilità della spesa sociale e il futuro della non autosufficienza
L'urgenza di "rigenerare la popolazione attiva" è strettamente connessa alla necessità di garantire la sostenibilità della spesa sociale, un impegno economico che pesa sempre di più sulle casse pubbliche a causa dell'invecchiamento. La spesa pubblica per prestazioni sociali ammonta oggi a 587,5 miliardi di euro (pari al 59,3% della spesa corrente), ma solo una frazione (57,1 miliardi) è destinata all'assistenza sociale e meno della metà di questa in servizi diretti. È pertanto necessario un approccio differenziato alle politiche per la terza età, che tenga conto delle diverse esigenze. In particolare, è cruciale distinguere tra gli anziani attivi e gli oltre 4 milioni di over 65 non autosufficienti, di cui solo una minoranza (7,6%) è assistita nelle RSA, mentre il 30,6% riceve assistenza domiciliare integrata. La strategia deve concentrarsi sul potenziamento dei servizi di prossimità e sulla riforma dell'assistenza alla non autosufficienza, valorizzando, come suggerito dall'Inapp, anche il ruolo dei non autosufficienti come consumatori di spesa sociale, oltre a promuovere la de-istituzionalizzazione in linea con la legge 33/2023 e le riforme previste dal PNRR. L'obiettivo non è solo di contenere l'aumento della spesa pensionistica, che rischia di salire fino al 17% del PIL entro il 2040, ma anche di fornire una risposta umana ed efficace ai crescenti bisogni di assistenza continuativa, che al momento gravano enormemente sulle famiglie e sul welfare informale. Affrontare l'inverno demografico, dunque, significa investire nella cura, nell'attivazione degli inattivi e in un modello di lavoro più flessibile e inclusivo, che sappia valorizzare l'esperienza degli anziani e consentire la piena partecipazione di donne e giovani.




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