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Il mondo dopo i Codici: l'età senza fondamento


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Ormai sull’Isola di Sant’Elena, Napoleone, romanticamente abbracciato da una raffica di nostalgia e assorto nei bilanci di un’esistenza spettacolare, rivolge la mente al futuro. Riflettendo su ciò che della sua opera resterà al mondo, mette da parte le guerre, le conquiste, i trionfi, spazzati inesorabilmente da Waterloo, e realizza che ciò che non sarà mai cancellato, che vivrà eternamente, è proprio il suo Code Civil.

Prendiamo le mosse da questa suggestiva immagine storica per avviare un discorso complesso che si muove nell’ambito del diritto, ma che tocca note più profonde di matrice filosofica.

Il motore delle presenti riflessioni è dato dal pensiero di uno dei più grandi giuristi viventi: Natalino Irti. Egli, nella sua colta produzione, ha analizzato, con intelligenza vivissima, i caratteri del mondo giuridico contemporaneo, arrivando a suscitare delle domande di grande spessore.

Le tendenze di questo nostro tempo, poi, ci inducono a cogliere tratti problematici che sposano le linee teoriche da noi esaminate.

 

LA DECODIFICAZIONE

 

Riallacciandoci all’immagine poc’anzi rappresentata, vogliamo ricordare che il Codice Civile Napoleonico, del 1804, ha rappresentato, come è noto, un grande spartiacque nella storia. La codificazione è l’affermazione della vittoria della borghesia sull’ancien régime, il trionfo dei valori illuministici e liberali. L’idea sottesa al processo è quella che esista una ragione dalla quale si possano derivare leggi giuste per regolare la vita degli uomini, da racchiudere in uno strumento (il Codice) completo, esclusivo e unitario. Siamo nel mondo delle certezze, dell’unità, dell’interezza. La legge è ancora legata ad una dimensione altra, precedente o superiore, in base alla quale è predicabile la sua giustezza, la sua validità. Il giusnaturalismo, abbandonate le vesti religiose, indossa un abito laico: non è più Dio o la morale a determinare cosa è giusto e cosa è sbagliato, a far capire come deve essere ciò che è. Al suo posto abbiamo un elemento tutto umano, baluardo della Rivoluzione e del suo laicismo: la Ragione.

Il Codice, poi, non determina i fini degli uomini, ma gli strumenti. In una prospettiva eminentemente borghese, infatti, alla legalità istituita, allo Stato, non spetta di orientare le vite dei consociati, ma solo di fornire loro gli strumenti per raggiungere le finalità che più desiderano. Si occupa di dare le regole del gioco, non di segnare il percorso. È la differenza che c’è tra il posizionare cartelli stradali e l’indicare la strada da seguire.

Siamo in un tempo in cui la legge speciale è vista come semplice specificazione dei principi generali del Codice. Esso, infatti, ha un valore costituzionale e non viene eroso da altre fonti dell’ordinamento. Le leggi eccezionali, invece, che negano il principio codicistico, sono marginali e, per di più, insuscettibili di applicazione analogica per espressa previsione normativa.

 

La situazione, però, cambia con le guerre, l’affermazione del capitalismo, la globalizzazione. Insomma, con il Novecento. Avviene quella accelerazione della storia che fa nascere nuovi gruppi, nuovi bisogni e, quindi, esigenze in cerca di tutela. Ecco, allora, che si dà risposta con le leggi speciali, che, ora, trasformano il ruolo del Codice facendolo diventare un diritto comune, votato a disciplinare il generale.

L’entrata in vigore della Costituzione, poi, dà una ulteriore spinta alla decodificazione, cioè alla fuga dal Codice e alla sua marginalizzazione. Se nel rapporto genere-specie tradizionalmente i termini erano Codice-legge speciale, ora sono diventati Costituzione-legge speciale. Quest’ultima, infatti, è l’unica in grado di attuare i precetti che la Carta Costituzionale contiene. Dobbiamo notare che c’è stato un importante cambiamento concettuale nella funzione della legge. Da strumento a fine. Il percorso da seguire viene indicato, gli istituti giuridici si slegano dall’imperante individualismo ottocentesco e abbracciano una dimensione sociale.

Quel che ci interessa, comunque, è che le leggi speciali aumentano e, allo stesso tempo, si consolidano, vengono cioè raggruppate creando dei microsistemi dotati di coerenza interna e di autonomia rispetto agli altri. Ognuno di essi utilizza un proprio linguaggio tecnico, dà significati specifici alle parole. Il Codice è messo all’angolo.

Il giurista, allora, deve muoversi in un contesto in cui non esiste più l’unità rassicurante del mondo di ieri (Zweig), dell’Ottocento. Un contesto in cui si avverte più che mai la crisi della fattispecie, della tecnica della astrazione generale, in favore del particolarismo dilagante.

 

IL NICHILISMO GIURIDICO

 

L’altra teoria che ci sembra opportuno trarre dal pensiero irtiano è quella del nichilismo giuridico.

Abbiamo osservato che la codificazione risente di idee giusnaturalistiche, per cui esiste una sfera superiore con la quale il diritto positivo si confronta e rispetto alla quale se ne considera la validità. Alla base di questo confronto c’è la separazione tra natura e legge. Da una parte abbiamo concetti come l’ordine cosmico, la volontà di Dio, lo spirito del mondo; dall’altra il volere umano che impone le leggi. Proprio questa alterità, questa dialettica, ci porta a dare un centro al diritto, un indirizzo che deve seguire. Valuteremo il prodotto umano sulla base delle categorie ad esso trascendenti e, in caso di difformità, arriveremo a dire che quel diritto non è giusto.

Così è stato fino all’evento più drammatico della storia, padre della modernità giuridica: la morte di Dio (Nietzsche). Una volta che il cristianesimo ha perso la sua influenza, che ogni metafisica è stata abbandonata, l’uomo si è trovato solo, vuoto, immerso in uno sconfinato nudo nulla. Nessun criterio valutativo per la sua vita. Sul piano giuridico, questo cambiamento ha significato la fine di ogni dualismo: spezzati i legami con una dimensione superiore, la volontà umana si è trovata libera, sufficiente a sé stessa. Capace di imporre ciò che desidera, senza essere guidata dall’alto. La ritrovata unità si è compiuta portandoci ad un diritto arbitrario, che ricade interamente nella volontà occasionale e precaria dell’uomo, nel suo arbitrio. Allora, raggiunto questo stadio, l’immediata conseguenza è l’indifferenza contenutistica: il diritto può trattare ogni materia, ogni disciplina, come vuole, perché è impossibile porre freni alla volontà imperante e dominatrice.

 

Resta, però, da domandarsi se sia ancora possibile parlare di diritto giusto. Certamente, se abbiamo compreso che la sostanza diventa insuscettibile di valutazione, non resterà che spostarci sulla forma. Arriveremo a dire che è giusto il diritto che rispetta la procedura, che aderisce alla tecnica di produzione. Fuori dalla forma, nulla.

A tale conclusione si potrebbe obiettare che nei regimi costituzionali, come quello italiano, esiste una declinazione sostanziale del principio di legalità. È noto che la nostra Costituzione è forte, quindi contiene un nucleo intangibile di valori fondamentali irriformabili. La validità di una legge ordinaria si predica non solo guardando alla sua correttezza formale, all’essere stata promulgata rispettando l’iter previsto, ma anche sindacando la sua aderenza (rectius: non aderenza) a determinati principi costituzionali.

Vero è, però, che, allontanando lo sguardo, realizziamo che la stessa Costituzione è diritto positivo, transeunte e abrogabile secondo la volontà (seppur qualificata) dell’uomo. Non è un criterio sovrastorico, non riporta indietro il dualismo natura-legge. Semplicemente radicalizza certe norme.

Sembra dunque che non ci sia alternativa: nel regno della nuda volontà umana, il diritto è diventato tecnica.

 

PROBLEMI

 

Quali sono le conseguenze dei due fenomeni analizzati?

Come abbiamo ricordato, la decodificazione crea microcosmi normativi dotati di un loro proprio linguaggio tecnico e di una loro coerenza. Il nichilismo giuridico porta la tecnica a diventare il vero fulcro del diritto. Ne deriviamo che il sistema giuridico si fa sempre più lontano dal cittadino, appannaggio quasi esclusivo di addetti ai lavori iperspecializzati. Chi non padroneggia la tecnica rischia sempre più di diventare un mero utente del diritto, che non lo comprende fino in fondo, ma se ne avvale perché non potrebbe fare altrimenti. Solo l’aristocrazia degli esperti, allora, può dotarsi degli strumenti per governare, in un’ottica di spostamento del potere verso organismi non elettivi, come comitati scientifici o agenzie. Soggetti privi di mandato popolare, ma detentori di un potere reale. Se ci pensiamo, si tratta di un modello poi non troppo inviso alla politica. I governi potrebbero usare la tecnica per evitare la responsabilità davanti agli elettori. Se le questioni diventano necessità tecniche, se una decisione è presa per aderire ad un modello ideato da un algoritmo o da un gruppo di esperti, allora la politica può trincerarsi dietro al rispetto della procedura, del modello, delle istruzioni, per evitare di assumersi responsabilità.

L’ultimo rischio è la paralisi: in un mondo iperprocedimentalizzato, pieno di controlli, check-list e linee guida, si rischia di burocraticizzare tutto e di rallentare il sistema. L’opacità, la paralisi, la deresponsabilizzazione e la depoliticizzazione potrebbero portare a dare adito a voci di cambiamento in senso autoritario: dove la legge perde senso, la procedura costruisce obbedienza e l’obbedienza prepara la domanda di comando.

 

Chissà se Napoleone avrebbe mai potuto immaginare che il suo mondo della certezza si sarebbe trasformato in un ordine che sopravvive senza direzione, in une vera e incerta età senza fondamento.

 

 

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