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La mancanza di cultura penale in Italia


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Quando ci si dimentica che la legge non è un fine, ma un mero strumento, si arriva a pensare che la giustizia si sostanzi nella reazione fredda e calcolata ad un’azione ritenuta contraria alla legge stessa. Così la pena viene concepita secondo un mero principio equivalente e repressivo, con lo stato che si sostituisce all’ordine delle cose non facendo altro che tentare di rifare ciò che è stato disfatto. E per un distorto senso della giustizia, con una riproposizione in salsa moderna della legge del taglione (“occhio per occhio, dente per dente”), si vorrebbe punire il reo con la sottoposizione allo stesso crimine che ha compiuto e, qualora questo non fosse materialmente possibile, almeno estirparlo in maniera irreversibile dal consorzio civile: rinchiudetelo in cella e buttate via le chiavi, si sente ripetere spesso.


L’uomo non è più fine


Possibile che un tale concetto della giustizia, ampiamente superato dalle nostre istituzioni e formalmente respinto dalla nostra Carta costituzionale, sia ancora radicato in larga parte della popolazione? Basta scorrere la sezione commenti dei post sui social network che hanno come oggetto un crimine di qualsivoglia natura: vi si leggerà lo stesso copione, fatto di frasi lapidarie che disumanizzano il colpevole e di “sentenze” volgari da giudici della domenica che lo condannano a brutali pene. E’ sufficiente discutere con qualcuno di un particolare crimine per sentirsi ripetere, la maggior parte delle volte, le stesse parole di sempre, riassumibili nella consueta formula: io a quello gli farei fare la stessa fine.  


Se ci si limitasse a questo, a qualche commento sui social o qualche frase occasionale in una discussione di dubbia importanza, si potrebbe certamente prendere atto che non vi sia una profonda cultura della pena condivisa nella popolazione, questa esercitando più i bassi istinti che le facoltà mentali nell’esprimersi su questioni penali, ma ci si potrebbe almeno consolare del fatto che la classe dirigente del paese abbia un’idea della giustizia di ben diversa natura, se solo questo fosse vero: quando ad ogni occasione si invoca l’applicazione della castrazione chimica a chi è colpevole di stupro, dimenticandosi che una siffatta pena sarebbe contraria alla nostra Costituzione, è evidente che il principio penalistico formalizzato dai nostri padri costituenti nella carta costituzionale non è nemmeno fatto proprio da chi ci rappresenta nelle istituzioni. 


La verità è che questa discussione si inserisce in un contesto di generale involuzione culturale che pare non avere soluzione di continuità. Oggi non c’è spazio per l’esitazione, per la riflessione, sacrificate sull’altare della celerità e dell’immediatezza. La conseguenza è che l’uomo, non è più protagonista, né il fine, ma solo un mezzo destinato a piegarsi ai ritmi frenetici del mercato ed arrendersi alla fulminea prontezza dell’AI: siamo nell’epoca dell’uomo flessibile, per dirla con Richard Sennett.

Questa deriva investe tutte le dimensioni umane, compresa quella giuridico-penale. Mentre la durata dei processi si allunga sempre di più (il che non è comunque auspicabile), i non addetti ai lavori non ne comprendono la complessità. Invece della faticosa raccolta degli elementi processuali propedeutici ad una decisione che dovrebbe configurarsi come sostenuta e ponderata, gran parte della popolazione si lascia guidare da un’istintiva concezione della giustizia.


La cultura penale nella Costituzione


I padri costituenti hanno voluto sancire formalmente nella Carta costituzionale una precisa cultura della pena. L’art. 27 della Costituzione, al terzo comma, recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.


Dunque, si afferma che la pena non è fine a se stessa, ma ha come principio ispiratore la rieducazione del condannato: il principio rieducativo della pena è così fatto proprio dalla costituzione, non essendo tuttavia mai stato attuato veramente.

Inoltre, l’art. 13 della costituzione, in tema di libertà personale, tutela l’ultimo nocciolo di libertà di cui gode il detenuto, affermando al quarto comma: “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Si ribadisce, pertanto, l’importanza di ogni singolo uomo, secondo una nobile cultura personalista, riscontrabile in tutta la prima parte della Costituzione, che assume come primo riferimento la persona.


Conseguenza di ciò di cui si è detto sopra è che la Costituzione, all’art. 27, quarto comma, dichiara che “non è ammessa la pena di morte”: è ormai pacifico che questo limite sia insuperabile anche da una revisione costituzionale secondo le procedure stabilite all’art. 138 della stessa Costituzione. Quelli citati sono articoli che più di altri specificano la cultura della pena presente nella Carta costituzionale, intesa quest’ultima come mezzo per giungere alla rieducazione del condannato, sulla base di una dottrina personalista che è ravvisabile in ogni articolo della prima parte della nostra legge fondamentale. Una semplice lettura degli articoli della nostra Carta potrebbe essere di aiuto a chi si lascia troppo andare nell’esprimere sconclusionati giudizi su chi rimane, pur con tutte le procedure restrittive, comunque un uomo, che in quanto tale deve essere tutelato.


La legge in funzione dell’uomo


Come ricorda Angelo Picariello in “Liberiamo Moro dal caso Moro”, uno tra i grandi padri fondatori della Costituzione, Aldo Moro, in una circolare del 13 novembre del 1956, affermava che “è nell’esecuzione penale che si realizza e che si conclude il magistero penale, onde non tanto una giusta sentenza, quanto una umana e redentrice esecuzione può salvaguardare la società da ulteriori attentati della criminalità”. [Nota 1] La sentenza, pertanto, per quanto giusta, non è che l’inizio del magistero penale, questo potendosi compiere solo nell’esecuzione umana e redentrice della pena. 


Sempre Angelo Picariello riporta la testimonianza di un allievo di Moro, Nicodemo Oliverio, che frequentò il corso tenuto dallo statista di Istituzioni di diritto e procedura penale nella facoltà di Scienze Politiche dell’università La Sapienza: “la pena, con le sue limitazioni, con i suoi svantaggi, è il segno del bene che riprende il suo dominio nella vita umana e nella vita sociale. E cancella il male. (...) Non è un male per il male, ma un bene finalizzato alla reintroduzione del reo nella vita sociale. (...) La rieducazione, consiste, secondo il pensiero giuridico di Moro, nell’introduzione del condannato nella realtà.” [Nota 2]


Aldo Moro
Aldo Moro (1916-1978), più volte presidente del Consiglio e coautore del Compromesso storico

La stessa cultura penale ispira il pensiero del filosofo Vladimir Jankélévitch, il quale afferma che “rendere il male per il male non è più riparare, ma è raddoppiare il primo male con un altro male. (...) Uccidere l’omicida non significa resuscitare la vittima, ma significa fare due vittime al posto di una.” [Nota 3] Il filosofo, inoltre, mette in luce come l’azione ingiusta si ripercuota, già prima dell’intervento statale, sullo stesso autore: “l’azione ingiusta non si diffonde nel mondo per imprimervi la sua impronta, ma rimbalza, con una ripercussione o una riflessione spontanea, sulla figura del suo autore.” [Nota 4]


La legge non dev’essere, quindi, intesa come una formula da applicare con solo rigore matematico, tentando di retribuire il danno arrecato con l’esatta riproposizione di quest’ultimo: “inumana è la rigorosa, esatta giustizia, che calcola la simmetria al millimetro e la concordanza al comma” [Nota 5], dice Jankélévitch. Compito del giurista è di interpretarla, non solo di eseguirla meccanicamente, tenendo presente che la legge è in funzione dell’uomo e non il contrario. Così si esprimeva, a proposito, il beato Rosario Livatino, giudice ucciso dalla mafia, in una conferenza tenuta a Canicattì il 30 aprile 1986: “Compito del magistrato non deve quindi essere solo quello di rendere concreto nei casi di specie il comando astratto della legge, ma anche di dare alla legge un'anima, tenendo sempre presente che la legge è un mezzo e non un fine. Verità che ritroviamo nelle altre parole che Gesù ebbe a pronunziare quando, secondo Marco, a proposito dello spigolare in giorno di sabato, disse, rivolto ai farisei: "Il sabato è fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato." 


Un ritorno ad una concezione della pena, e più in generale della legge, che assuma l’uomo come fine è fondamentale per riaffermare il valore centrale della persona come bussola per il nostro agire, con la convinzione che ogni persona, quando con la mortificazione della pena senta la necessità di ritrovarsi, possa trovare nuova accoglienza nel consorzio sociale. La persona, così emendata e restaurata, potrà avere nuova vita all’interno della società: questa è finalmente giustizia.


Note


1) Angelo Picariello, Liberiamo Moro dal caso Moro. L'eredità di un grande statista, Milano, San Paolo Edizioni, 2025, pagina 220

2) Ivi, pagina 230

3) Vladimir Jankélévitch, De la justice à l'équité, Paris 1970, traduzione italiana di Luisa Avitabile: Dalla giustizia all'equità, Torino, Giappichelli Editore, 2022, pagina 50

4) Ivi, pagina 51

5) Ivi, pagina 39


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