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Non è un asilo, è una strategia di sviluppo economico

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Un Paese che cresce da zero

Stamattina ho scambiato qualche messaggio con M. la mia vecchia compagna di università. M. è tornata a vivere al paese dei suoi dopo gli studi, nell’alto Lazio, e anche se ci vediamo poco continuiamo a sentirci con una certa frequenza. Ho lasciato la piccola da mia mamma, ora scappo a lavoro - mi ha scritto dopo gli aggiornamenti di rito. M. ha avuto una bambina due anni e mezzo fa e nel comune non c’è un asilo nido; la lista d’attesa per il nido pubblico è ferma da mesi e il costo del privato supera metà del suo stipendio. 


Conosco questa sua storia perché è quella della mia amica, ma anche perché è la storia di tantissime persone. Nel nostro Paese, infatti, poco più di un bambino su quattro sotto i tre anni frequenta un asilo nido o un servizio per la prima infanzia. Eppure l’infanzia non è solo una fase biologica: è il luogo dove si forma la fiducia, il linguaggio, la curiosità, la consapevolezza di sé e degli altri. Di più: è la base su cui si costruisce ogni democrazia e ogni economia sana, e quindi anche lo specchio della società in cui viviamo oggi e quella in cui vivremo domani.  


Le fondamenta invisibili dello sviluppo economico

Gli anni tra la nascita e i sei anni sono quelli in cui il cervello umano cresce più rapidamente: oltre l’80% delle connessioni neuronali si forma in questo periodo. 


Un grafico che mostra il "ritorno sull'investimento" in capitale umano vs il momento in cui viene fatto l'investiento (fase prenatale, 0-3 anni, 4-6 anni, scuola, educazione superiore). Gli investimenti rendono di piu' se fatti nelle primissime fasi della vita di un bambino

L’economista premio Nobel James Heckman, ha dimostrato che gli investimenti precoci sono quelli con il rendimento sociale più alto: ogni euro speso nella prima infanzia ne genera fino a sette nel lungo periodo, grazie alla riduzione dei costi sociali e all’aumento della produttività futura. Gli studi dell’OECD che si concentrano sull’Europa confermano una situazione simile anche a casa nostra: la qualità e l’accesso ai servizi 0-6 anni correlano con livelli più alti di benessere, coesione sociale e innovazione. L’educazione non è quindi solo una questione di equità - che pure dovrebbe essere un principio chiave: è un investimento strutturale per un Paese che voglia restare competitivo, giusto e democratico.


L’Italia tra ambizione e realtà

L’Italia ha riconosciuto l’importanza dell’educazione precoce con la Legge 107/2015 e il Decreto Legislativo 65/2017, che hanno istituito il “sistema integrato 0–6 anni”. È un quadro normativo avanzato, che sulla carta mira a garantire continuità educativa, inclusione e accesso universale. Nella pratica, però, i risultati restano disomogenei. La copertura dei servizi per la prima infanzia sotto i tre anni copre poco più di un bambino su quattro, ma anche questo dato nasconde enormi disuguaglianze territoriali: in Emilia-Romagna e Toscana la copertura supera il 40%, in Calabria, Sicilia e Campania resta sotto il 15%. Il sistema integrato esiste, ma non funziona: mancano infrastrutture, personale qualificato e una governance coerente tra Stato, Regioni e Comuni.


A ciò si aggiunge una cronica carenza di fondi strutturali: la spesa pubblica per l’istruzione in Italia è il 4,1% del PIL contro una media UE del 4,8%, così migliaia di famiglie sono costrette a soluzioni private o informali, come quella di M. Resta da chiedersi cosa fanno le famiglie dove i nonni non possono sopperire alla carenza di strutture.


Modelli alternativi?

Se guardiamo fuori dai nostri confini, scopriamo che i modelli più avanzati non si trovano soltanto in Europa. In Canada, il Québec ha introdotto venticinque anni fa un sistema di asili pubblici a tariffe controllate che ha quasi raddoppiato il tasso di occupazione femminile e ridotto drasticamente la povertà infantile. In Corea del Sud, lo Stato ha investito massicciamente in servizi per l’infanzia come parte integrante della strategia di sviluppo economico, con un effetto misurabile sul PIL potenziale. In Cile, invece, l’espansione dell’educazione prescolare è stata parte integrante di una più ampia politica di riduzione delle disuguaglianze.


L’educazione 0-6 non è quindi solo una politica sociale, ma una vera e propria politica economica. Investire con continuità nella prima infanzia significa ridurre le disuguaglianze di genere, sostenere la natalità e aumentare la partecipazione delle madri al mercato del lavoro. Ogni nuovo nido aperto non è un costo, ma un moltiplicatore di crescita, libertà e uguaglianza. Continuiamo a trattare la cura e l’educazione dei bambini piccoli come una questione familiare, quasi privata, mentre dovrebbe essere una questione di strategia nazionale.


Più famiglie, più famiglie! Si ma con quali strumenti? E a che costo?

Il governo continua a predicare il mito della famiglia che in Italia - nonostante gli scenari da incubo dipinti a scopo propagandistico da figure anche di spicco, continua ad essere formata da due genitori, per lo più di sesso opposto. Ma quando si tratta di assegnare risorse concrete per la prima infanzia, le promesse restano soltanto su carta. Il PNRR ha stanziato decine di miliardi per asili nido e servizi integrati, ma molte regioni faticano a spendere; contemporaneamente, nelle leggi di bilancio degli ultimi anni i fondi stanziati risultano inferiori non solo alle attese ma anche ai bisogni. Ma il problema è bipartisan: infatti in Italia, tra il 2015 e il 2021 gli investimenti pubblici nei servizi educativi per l’infanzia, in rapporto al PIL, sono diminuiti dell’11%, mentre nei paesi OCSE nel complesso sono aumentati del 9%. Questo cortocircuito politico-finanziario penalizza soprattutto le donne e i bambini più fragili, e si vede dai numeri.


Il carico familiare rimane uno dei maggiori ostacoli all’occupazione femminile: tra le madri con figli minori il tasso di occupazione è circa 62% rispetto al 92% dei padri in coppia. Le disparità territoriali aggravano il fenomeno: dove i nidi scarseggiano o sono costosi, molte madri rinunciano al lavoro o riducono le ore, sacrificando non solo la loro carriera, ma la propria autonomia, e dunque anche la possibilità di sfuggire a situazioni di abuso fisico o psicologico - o semplicemente di fare scelte completamente indipendenti. In effetti 1 donna su 5 lascia il lavoro dopo la maternità, e tra le più giovani solo la metà risulta occupata, uno dei risultati più bassi in Europa.


Queste carenze sistemiche non riguardano solo la quantità, ma anche la qualità e l'accessibilità dell’educazione offerta. Spesso per esempio i servizi per l’infanzia non dispongono di personale adeguatamente formato per accogliere bambini con disabilità, né prevedono percorsi di educazione sessuo-affettiva, giudicati anzi qualcosa di pericoloso dalla propaganda del nostro governo di estrema destra.


La ricerca internazionale però suggerisce che programmi che promuovono educazione socio-emotiva precoce e affettiva, ossia insegnare a riconoscere emozioni proprie e altrui, il rispetto, l’empatia e i confini, sono associati a una minore tendenza a comportamenti aggressivi e violenti, e a un incremento di comportamenti pro-sociali nei bambini. Insomma, se non investire in asili funzionanti significa lasciare indietro pezzi importanti del nostro sviluppo economico, sociale e democratico - investire solo nel numero ignorando la qualità dei contenuti pedagogici significa costruire parcheggi, non comunità.


Un patto europeo per la prima infanzia

In Europa esistono alcuni modelli virtuosi: in Francia, i nidi pubblici coprono oltre il 60% dei bambini sotto i tre anni; in Svezia, l’accesso universale e la formazione qualificata del personale sono garantiti dallo Stato; nei Paesi Bassi, un sistema misto pubblico-privato sostiene la partecipazione femminile al lavoro. Peccato che sempre di più questi Paesi ci sia una strutturale carenza di lavoratori dovuto a politiche migratorie sempre più razziste - ma questa è un'altra storia. 


Bruxelles ha provato a tracciare la rotta. Con la raccomandazione del Consiglio 22 maggio 2019  sui sistemi di educazione e cura della prima infanzia di qualità, l’Unione invita gli Stati membri a garantire accesso, inclusione e standard pedagogici comuni. Ma oggi serve molto di più: in un mondo lacerato dalle guerre, l’Europa non riesce ancora a farsi sentire sul piano internazionale. In un’economia dominata dai giganti tecnologici, non abbiamo costruito una nostra industria dell’innovazione. In un sistema globale dove l’1% della popolazione possiede più ricchezza del restante 95%, non abbiamo ancora creato un sistema efficace di pre- e re-distribuzione comune.  Perché l’Europa resta un patchwork di Stati che si pensano come democrazie diverse, non come un unico spazio politico e civile e questo comincia dalla prima infanzia dei suoi cittadini e cittadine. Questa frammentazione georgafica e qualitativa comincia molto prima delle urne o dei trattati: inizia nella prima infanzia, quando formiamo cittadini che imparano a pensarsi come italiani, tedeschi, francesi, ma raramente come europei.


La scommessa sarebbe invece quella di mettere in piedi un vero e proprio Patto Europeo per la Prima Infanzia. Un sistema educativo condiviso, integrato e realmente transnazionale. Un patto che renda concreto il progetto politico dell’Unione, garantendo a ogni bambina e bambino le stesse opportunità di crescita, accesso e libertà - ma anche la capacità di sentirsi parte di un destino comune. Perché un’educazione europea può restituirci un’economia prospera, fondata sulla conoscenza e sull’uguaglianza - ma anche una democrazia unita, capace di affrontare insieme le crisi del nostro tempo.




















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