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Musk trilionario e l'elefante nella stanza

Elon Musk (da Fortune Italia)
Elon Musk (da Fortune Italia)

È notizia di questa settimana: Elon Musk diventerà il primio trilionario (in dollari, praticamente mille volte miliardario) della Storia. Un traguardo che sa tanto di minaccia e di potere arbitrario sulla sua azienda, e che lo va a “premiare” in un momento complicato per Tesla. A ricordare che, in fin dei conti, se il megadirettore vuole, il premio gli arriva comunque.


Ma avere un trilionario ci dà l’opportunità di riflettere, oltre che sul funzionamento della struttura socioeconomica, sulla disuguaglianza nella società – elefante nella stanza delle società avanzate di questo secolo. Perché le cose potrebbero andar meglio, ma intanto sono andate peggio.

 


Il decennio della divisione


Amitabh Behar, direttore esecutivo di Oxfam, è stato abbastanza chiaro nel definire gli anni Venti del XXI secolo in termini perentori. Con le sue stesse parole:


Stiamo assistendo all’inizio di un decennio di divisione, con miliardi di persone che si accollano le onde d’urto economiche della pandemia, dell’inflazione e della guerra, mentre le fortune dei miliardari esplodono. Questa disuguaglianza non è casuale: la classe dei miliardari sta facendo in modo che le multinazionali forniscano loro più ricchezza a spese di tutti gli altri […]


Il potere incontrollato delle multinazionali e dei monopoli è una macchina che genera disuguaglianze: spremendo i lavoratori, evadendo le tasse, privatizzando lo stato e stimolando il collasso climatico, le multinazionali stanno incanalando ricchezza infinita verso i loro proprietari ultra-ricchi. Ma stanno anche incanalando il potere, minando le nostre democrazie e i nostri diritti. Nessuna azienda o individuo dovrebbe avere così tanto potere sulle nostre economie e sulle nostre vite. Per essere chiari, nessuno dovrebbe avere un miliardo di dollari.


I dati raccolti da Oxfam – qui nella formulazione di Ultima voce – non fanno che confermare il suo pensiero. Vediamone qualcuno:


-          dal 2020 al 2024 i 5 miliardari più ricchi del mondo (per nome: Elon Musk, Bernard Arnault, Jeff Bezos, Larry Ellison e Warren Buffett) hanno visto più che raddoppiare il loro patrimonio, da 405 a 869 miliardi di dollari;

-          i Paesi del Nord globale ospitano solo il 21% della popolazione, ma anche il 69% della ricchezza (e il 74% della ricchezza miliardaria);

-          i Paesi UE, pur con solo il 6% della popolazione, ospitano il 15% dei miliardari e il 16% della ricchezza miliardaria mondiale (pari, nel 2023, a 1,9 trilioni: giusto per capire, di nuovo, cosa significhi avere un sol uomo con un trilione);

-          dal 2022 al 2024, invece, 800 milioni di lavoratori in tutto il pianeta hanno visto il proprio salario ridursi drasticamente;

-          sulle 1600 aziende più grandi del mondo, solo lo 0,4% si impegna pubblicamente a pagare ai propri dipendenti un salario equo;

-          l’1% più ricco della popolazione globale possiede il 43% di tutte le attività finanziarie del mondo.


Anche se spesso, parlando di disuguaglianza estrema, si pensa a Paesi ancora poveri, in via di sviluppo o al massimo con un welfare ridotto (compresi i Paesi anglosassoni, su tutti gli USA), nemmeno la nostra Penisola se la passa bene:


-          a fine 2021, la ricchezza della fascia più abbiente era 6,3 volte superiore a quella della popolazione più povera (nel 2022 il rapporto è salito a 6,7);

-          alla fine del 2022, le consistenze patrimoniali nette dell’1% più ricco (titolare del 23,1% della ricchezza nazionale) erano oltre 84 volte superiori alla ricchezza detenuta complessivamente dal 20% più povero della popolazione italiana;

-          dall’inizio della pandemia fino al novembre 2023, in Italia, il numero dei miliardari è aumentato di 27 unità, mentre il valore dei loro patrimoni miliardari è cresciuto di oltre 68 miliardi di dollari, segnando un +46%.


Per rendere i paperoni del globo ancora più sfacciatamente ricchi ci sono voluti solo cinque anni. E per la povertà? Secondo Oxfam, a sconfiggerla ci vorrebbero due secoli. Almeno.

 

Manifestazione di volontari di Oxfam (da Oxfam International)
Manifestazione di volontari di Oxfam (da Oxfam International)

A chi giova?


Quello che questi dati dimostra è il cui prodest? («a chi giova?») della nostra organizzazione socioeconomica. A chi giova avere meccanismi di accumulazione delle ricchezze che permettono di avere una sparuta pattuglia di super ricchi a fronte di una sterminata di massa di persone in difficoltà? Tanto più che questi risultati sono stati ottenuti in tempi di crisi – e spesso di austerità delle politiche pubbliche –, ossia quando il discorso pubblico è tutto improntato sui sacrifici da fare e le difficoltà quotidiane sono più evidenti.


La risposta al cui prodest è che questa organizzazione è tarata sulla misura dell’accumulazione (se vogliamo, nemmeno degli accumulatori, che come singoli possono comunque cadere) di patrimoni. In particolare, nella struttura attuale – quella finanziarizzata – del capitalismo, l’accumulazione delle migliori fortune avviene attraverso la finanza (redditi da capitale, sostanzialmente, e non da lavoro) e attraverso l’eredità. Se la prima è relativamente recente – nel senso dell’ultimo secolo e mezzo –, la seconda è un imperativo storico.


Il peso dell’eredità però varia – e oggi, in particolare, siamo tornando ai livelli di un secolo fa: la redistribuzione non funziona, così le opportunità sono diseguali, il mercato è inquinato e l’ascensore sociale si rompe. O almeno si rompe dal basso verso l’alto: è quello che hanno dimostrato due economisti della Banca d’Italia, Sauro e Barone, in una ricerca dagli esiti abbastanza sconcertanti. Infatti, prendendo in considerazione le famiglie più ricche di Firenze del 1427 (quando venne istituito il primo catasto moderno della città) e quelle del 2011, hanno scoperto che sono le stesse. In buona sostanza, seicento anni di Storia non hanno scalfito le gerarchie: chi era ricco prima che Michelangelo nascesse e la Cupola del Duomo venisse terminata, ancora oggi siede sugli allori.


Più subdolo è il fattore finanza. L’accumulazione tramite speculazione in borsa è giustificata come un bisogno più elastico, dinamico, profittevole e tutto sommato giusto del credito bancario. Tuttavia, come scrive Luciano Gallino, dal 1982 al 2000 – nella sua fase di massima espansione storica – il mercato borsistico degli USA ha prodotto un’emissione netta di azioni negativa. Insomma, non ha potuto sostituire il credito bancario, né lo ha mai voluto: invece, ha prodotto «accumulazione di capitale entro se stesso». [1]


E poi, in fin dei conti, basterebbe anche vedersi un po’ della Grande scommessa: dura un paio d’ore, ma ne vale la pena. Ed è più dinamico delle parole sullo schermo.

 


In conclusione


Libero mercato, concorrenza, meritocrazia, ma anche pari opportunità ed equità sono tutte belle parole senza risultato. La notizia del primo trilionario non può che annerire un po’ di più il futuro: ennesimo tassello su quella situazione che John Galbraith descriveva come «opulenza privata e miseria pubblica», ossia austerità per tutti e accumulazione per una minoranza del pianeta. Anche perché, senza troppi giri di parole, o la crescita è per tutti, o solo per alcuni, mentre gli altri stagnano e, alla peggio, rimangono per sempre indietro.


La legge ha avallato, permesso e sostenuto, nell’ultimo mezzo secolo, questo processo di concentrazione delle ricchezze. A differenza delle politiche adottate negli anni dopo la Grande depressione del 1929, quelle che hanno fatto seguito alla crisi degli anni Settanta hanno fatto leva su regole business friendly, che in cambio hanno ricevuto meno di quanto dato – di nuovo, proprio perché il funzionamento della struttura socioeconomica è per l’accumulazione, non per il benessere collettivo.

Per dire, tra il 1948 e il 2018 la produttività negli USA cresce del 253% e la retribuzione media dei lavoratori del 116% – ma con un enorme divario. Rispettivamente, la crescita nel periodo 1948-1979 e del 108% e del 93%, mentre nel periodo 1979-2018 è del 70% e del 12%. [2] La crescita diminuisce e i frutti comunque prodotti non sono raccolti dalla maggioranza della collettività.


Uno dei mezzi più semplici che sono stati usati dalle democrazie moderne per attutire le diseguaglianze è stata la fiscalità progressiva: da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i propri bisogni, nella formulazione socialisteggiante. Ma anche questo campo ha visto lo Stato abdicare:


-          dal 1980 al 2020 la tassa globale media sui profitti delle multinazionali è scesa dal 46 al 26%;

-          negli USA, l’aliquota per i redditi più elevati è passata «dal 90% degli anni Cinquanta al 28% del 1988 […] L’imposta sulle società diminuì dal 50% al 34%; le plusvalenze passarono dal 30% al 15%» [3];

-          in Italia, le aliquote IRPEF (l’imposta sui redditi delle persone fisiche) sono passate dai 32 scaglioni del 1974-1975 ai 3 odierni; l’aliquota minore è passata dal 10% al 23% e quella maggiore dal 72% al 43%.


Proprio in questi giorni la presidente Meloni, in un post su X ha ribadito che la patrimoniale non si farà. Intanto le raccomandazioni basilari di Oxfam – salario minimo e miglioramento dei supporti al reddito, com’era il Reddito di cittadinanza – rimangono inascoltate. C’è da chiedersi se veramente basterebbero 200 anni, di questo passo, per eliminare la povertà. Forse la risposta che abbiamo tutti è la stessa. E non è così positiva.



Note


1) GALLINO Luciano (2011), Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino, pagina 133.

2) CHOMSKY Noam e WATERSTONE Marv (2022), Le conseguenze del capitalismo, Ponte alle Grazie, Milano, a cura di Valentina Nicolì, pagina 298.

3) Ibidem.

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